venerdì, Aprile 26, 2024
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Hosseini e l’eco della vita reale in una Kabul sofferente- la recensione

di Isabella Savinelli

“E l’eco rispose”, il terzo e attesissimo romanzo di Khaled Hosseini dopo “Il cacciatore di aquiloni” e “Mille splendidi soli”. L’autore, dopo circa sei anni, ritorna sulla scena dell’editoria appagando la fervida attesa dei suoi lettori ancora incantati dai due romanzi precedenti. Entrambi divenuti casi editoriali internazionali con milioni di copie vendute, i due racconti hanno consacrato  Hosseini come uno degli autori contemporanei più letti e apprezzati. L’ambientazione dei suoi tre libri è sempre Kabul, la sofferente capitale dell’Afghanistan verso cui l’autore ha sempre nutrito un forte attaccamento. Non a caso, ha dato vita alla Khaled Hosseini Foundation, un ente no profit che fornisce assistenza umanitaria alla popolazione afgana.

Siamo negli anni cinquanta, la lunga guerra con la Russia non è ancora scoppiata, i talebani non hanno ancora imposto il loro regime e l’Afganistan è un terreno pieno di micce nascoste che cerca un’equidistanza tra le mire espansionistiche della Russia e degli Stati uniti. I protagonisti della storia sono due bambini di un piccolo e dimenticato villaggio, Shabdagh, fuori da Kabul: Abdullah di dieci anni e Pari, la sua sorellina di tre anni. Orfani di madre, vengono accuditi da un padre poverissimo, Sabur, e da una matrigna per niente cattiva, ma avvilita per la tristezza che l’ha segnata negli anni passati. Sulla strada del minuscolo villaggio che porta a Kabul, viaggiano il padre e i due figli. Consapevole di quello che sarebbe successo a Pari una volta arrivati a Kabul, il padre cerca molte volte di persuadere il figlio a restare a casa, ma senza riuscirci. Il legame tra i due fratelli è troppo forte perché Abdullah cambi idea: è come se si fossero scelti reciprocamente, tra di loro c’è un’affinità quasi sovrannaturale, legati in eterno dalla ninnananna che la madre, prima di morire, cantava loro per farli addormentare. Ma ecco che, per una scelta apparentemente sensata perché dettata dalla miseria ma, in verità, irragionevole, fratello e sorella si separano, per tutta la vita. La storia poi si dipana attraverso tre generazioni della famiglia di Abdullah e Pari, attraverso persone che, in un modo o nell’altro, prendono parte alla loro vita. Chissà se la ragnatela dei legami familiari che unisce il loro stesso sangue, la nostalgia della loro primordiale e profonda intesa, il ricordo della melodia della buona notte che li acquietava, riusciranno, un giorno, a ricongiungere le loro vite.

Hosseini ci ripropone, questa volta in maniera molto velata, quasi scarna, l’universo e la cultura dell’Afghanistan, un pezzo di mondo dilaniato, nel passato e nel presente, dalle guerre, dal terrore e da una cultura tanto ben radicata quanto cieca. Questa volta però, a differenza dei due suoi romanzi precedenti, la trama non indugia in scenari di guerra, violenze e stupri, ma in un’umanità colta tra sentimenti contrastanti e destini in conflitto in cui gli atteggiamenti sono condizionati non tanto dalla cultura di appartenenza, quanto dalla condizione di nascita, dalle cicatrici sulla pelle dei protagonisti e dalla loro interiorità turbata. In effetti, in questa storia che ruota attorno non solo a genitori e figli, ma anche a fratelli e sorelle, a cugini, ad amici, l’autore esplora tutti i sentimenti che alimentano tra di loro i familiari e non solo: l’onore, il tradimento, il pentimento, il sacrificio, la speranza. E in questo universo così variegato, Hosseini sceglie di ricongiungere tutto il caos e il disordine della vita ad un punto fermo, al sempiterno legame di sangue e di affinità che unisce due fratelli. In questo caso si tratta di Pari ed Abdullah, un fratello e una sorella che, dopo aver vissuto insieme e in perfetta sintonia i primi anni di vita, a causa della miseria, sono costretti ad uno struggente e dilaniante abbandono dopo il quale vivono le loro vite separatamente, tra ostacoli da superare e crescita interiore, con un vuoto da colmare, un senso di incompletezza che li accompagnerà per tutta la vita e li segnerà per sempre. Anche le certezze assolute del tempo che passa e della distanza che separa, cadranno di fronte all’autentico e profondo nodo che lega i due fratelli.

Tutto ciò viene reso da Hosseini con uno stile scorrevole ed incantevole ma la trama sembra essere slegata e, a volte, troppo sospesa, come troppi sono gli intrecci: è presente, in effetti, un continuo girovagare tra luoghi e personaggi distanti. La storia è divisa per epoche ma è uno smarrirsi in un intreccio contorto che avrebbe potuto avere una maggiore linearità e consistenza, pur essendo profondo nei sentimenti dei protagonisti che, in un modo o nell’altro, hanno qualcosa da insegnare al lettore, stimolando alla giustizia, alla clemenza e al perdono. Chi legge, infatti, non è in grado di provare rancore per Sabur, il padre o Nabi, lo zio; non riesce a condannare Parwana che abbandona la sorella in pericolo; perdona il furbetto ragazzino Gholam che riversa su Adel le ingiustizie compiute dal padre; nutre compassione e ammirazione per l’altra Pari, figlia di Abdullah, che sacrifica la sua vita per accudire il padre, per Roshi, la ragazza sfigurata, per la progressista e auto-distruttiva Nila e per tanti altri. È, questo, dunque, un romanzo, le cui storie “secondarie” sono le protagoniste e quasi tutte senza un lieto fine, come succede nella vita reale che questo libro celebra. Perché il lieto fine va cercato dove tutto è limpido e lieto, non dove regna la rassegnazione e lo sconforto. Insomma, un libro da leggere, possibilmente non come un romanzo, ma come un “eco” di tante vite vissute.

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